Amano i poeti i frammenti minimi di stelle,
li setacciano in sabbia e segatura,
li disseminano sul grano per farlo oro,
li sciolgono piano nei versi e nelle lacrime
degli occhi lucidi degli anziani
che tirano la cinghia del loro silenzio.
Amano i poeti le tempere fiamminghe
dell’autunno, gli alberi spogli di vestaglie verdi,
il filo delle caldarroste che s’inerpica nel freddo,
le insegne in ferro battuto delle osterie
dalle serrande basse sotto lampioni e cielo,
quel che resta del prato fra colate d’asfalto,
le voci nelle piazze soffocate dal vespro,
le massaie nei grembiuli di farina,
le domeniche di fedeli in piedi all’omelia,
i sentimenti saldati a stagno con maestria
di fabbri da mani di scorza e calli.
Amano i poeti gli abiti larghi fuori moda,
le toppe memori d’usura, le suole consumate
da chilometri di passato e strade brulle,
i sedili in noce dei regionali, l’ardesia della brace,
il rombo dei temporali, la cicala che ora tace…
e della carta grezza fanno pura seta
decorata con merletti di parole.
Ma amano i poeti, più di tutto
quel tanfo acre della canfora
che si spalma sui ricordi vagabondi
e la notte odono ancora quel bisbiglio
che sillabava la voce delle loro madri:
è nausea in certi inverni senza luce,
è infanzia di ritorno, a farsi largo
in uno strappo che non si ricuce.