“Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse.”1
Ma che cazzo state dicendo? Era una gioia quando potevamo ritrovarci fuori dai bar a centellinare una Chicha de Arroz sbirciando le gambe di Mariana e delle sue sorelle, scivolare insieme nella notte, con-servando i loro sorrisi per i sogni. Le strade colorate di Caracas non avevano bisogno delle fiamme per riscaldarsi della voglia di vivere. Riversavamo i nostri desideri e le gioie più segrete nei quartieri che accendevamo con la nostra esuberanza, la voglia di illuminare gli angoli tristi che talvolta si nascondevano nel profondo di un pensiero, nell’intuizione di qualcosa che cominciava a non andare per il verso giusto.
Josè bruciava sigarette e istanti, mai sazio di vita e di avventure, Paco rideva sempre, felice di poter stare con noi, Pepe dominava i silenzi, distribuiva sguardi e ci teneva uniti. Insieme riuscivamo a dilatare i respiri, a far nostra la felicità che si nascondeva negli istanti minimi, nelle pieghe di un sorriso e nelle notti senza sonno. Avevamo poco ma non ci mancava nulla, anche se allora ancora non lo sapevamo.
Poi le cose cominciarono a cambiare, lo potevi sentire nella diversa consistenza dell’aria e dei pensieri che la attraversavano, vedere nei volti delle donne al mercato, negli sguardi abbassati davanti alle divi-se, nei pensieri che si facevano pesanti come piombo.
Capivamo che qualcosa non andava, ma all’inizio ci volevamo illudere che in fondo tutto sarebbe potuto continuare a essere come lo desideravamo. Era una finzione che ci permetteva di sperare, finché un mattino mi svegliai sentendo piangere mia madre in cucina, la vecchia tivù accesa in sottofondo, la finestra aperta sui rumori di una città che soffriva. Quelle lacrime mi hanno aperto gli occhi, hanno costretto tutti noi a prendere coscienza di quanto stava accadendo, hanno invecchiato i nostri pochi anni e ingrigito sogni e speranze. Troppe uniformi per la strada adesso, troppe domande, sospetti, parole a mezza voce e sguardi impauriti.
Il sole è sempre lì, eppure non riesce più a scaldare i nostri cuori e a scacciare il freddo dei dubbi che cominciamo a nutrire anche su chi ci sta accanto. Mariana non esce quasi più di casa e quando lo fa le sue gambe sono nascoste sotto un paio di vecchi jeans sformati, a nascondere la sua gioventù dagli sguardi dei militari, cercando di passare inosservata. Che logica può avere un mondo che rende scialba la bellezza?
L’ex autista di bus, il sindacalista che doveva rappresentarci, ci ha costretti a nasconderci nelle cantine, a raggrupparci lontano dagli sguardi dei vecchi amici di cui non ti puoi più fidare. Abbiamo rinunciato ai balli in strada, ci è rimasta solo la voglia di poter parlare, urlare al mondo la nostra rabbia e la nostra sete di libertà.
Il nostro mondo si è rimpicciolito, come pure le nostre speranze e le nostre vedute. Anche il cuore si è ridotto, rendendoci più egoisti e meschini, sospettosi, aridi. Non abbiamo più il tempo o forse semplicemente la voglia di sbirciare le ragazze e di aspettare i loro sorrisi, è ora più facile comprare un po’ di sesso illudendoci che sia amore. Non beviamo più per accompagnare i pensieri e lasciarli scorrere pigri attraverso le ore trascorse con gli amici, ma per dimenticare quello che siamo diventati e per fomentare la rabbia che cresce sempre più dentro noi. E’ un’ira cieca, che non può farsi una ragione di quello che ci è stato sottratto: il nostro futuro.
Lasciavo scorrere le giornate, prive di un senso apparente, rincorrendo i pensieri pigri che popolavano la mia mente, ora vorrei un minuto di quei giorni, una boccata di speranza in mezzo al nulla e alla pesantezza di questo momento, carico di tensione e che sembra infinito. Quello che più mi manca, è la spensieratezza da poter infondere in un istante, per renderlo piacevole e degno di essere vissuto.
Io, Josè, Pepe e Paco ci incontriamo sempre più di rado, quasi mai tutti insieme. I sorrisi di una volta sono stati sostituiti dai piani per riprenderci la nostra vita e i silenzi tra noi sono ora diventati insopportabili. Davanti ai soprusi, siamo costretti ad abbassare la testa, ma ricordiamo ogni volto, ogni bacio rubato, ogni sorriso fuori posto e non dimentichiamo chi ha reso possibile tutto ciò.
Abbiamo imparato ad appiccare il fuoco, l’arte di costruirlo dal nulla e farlo esplodere in mezzo alle divise, nelle vie che un tempo camminavamo riempiendole dei nostri giovani desideri, delle speranze e della voglia di un corpo da abbracciare per far scorrer via più in fretta l’estate.
Abbiamo cominciato a inebriarci del fumo acre che corrode cose e pensieri, brucia via la giovinezza in un istante e ci rende cinici e spietati. Potevamo disporre del nostro tempo e delle nostre vite, misere ma che ci appartenevano, ora la libertà che possediamo è quella di fermarci prima di diventare come loro.
La primavera quest’anno non ha il solito profumo, sembra indugiare un attimo di troppo prima di manifestarsi, come i nostri pensieri che non osano spandersi al di fuori della nostra mente. Il tempo scorre, fugge e noi rimaniamo indietro.
Arriva aprile, mese di sogni infranti che si sarebbero dovuti schiudere insieme ai fiori. La voglia di manifestare, la loro forza ottusa e brutale, la nostra reazione da bestie braccate. Le strade urlano di rabbia e paura, i bambini piangono, le finestre si chiudono, dalle auto rovesciate emana il puzzo di benzina, lo stesso che sento sui miei vestiti. Indossiamo le maschere antigas, armati di spranghe e bastoni lasciamo che la nostra rabbia fluisca attraverso le vie secondarie e andiamo a recuperare le molotov da José, che ci abbraccia fissandoci dritto negli occhi. Siamo eccitati, ebbri di una febbre di vita che ci consuma come candele. Torniamo in strada, ora sì gioiosi di appiccare il fuoco, di purificare con l’inferno chi governa questo Paese. Lancio una, due, tre bombe finché un ritorno di fiamma annusa il combustibile su di me e lo fa proprio.
Anch’io ora brucio ma ormai sono il vento, sono il fuoco, il supereroe che non si può sconfiggere e volo veloce a difendere la mia gente, avvolto nella luce e nelle fiamme che non mi abbandoneranno più.
Liberamente ispirato all’immagine: Crisis de Venezuela – Ronaldo Schemidt – Fotografia vincitrice del World Press Photo 2018.