È in piedi tra due valigie enormi. La vedo dal finestrino del bus: una ragazza di origini indiane, in compagnia di due bambine piccole, gemelle credo, e un ragazzino che avrà undici, dodici anni. Lei sembra giovanissima. Il bus accosta per farli salire.
Lo spazio è poco, l’11C è già pieno: qualcuno parla al telefono, qualcun altro ascolta musica senza le cuffie. Vicino a me c’è un signore anziano, in piedi; ha l’odore di un armadio chiuso da secoli. Gli ho offerto il mio posto, ma mi ha risposto con un no quasi offeso. Lo vedo sbuffare, quando sale la famigliola in viaggio. Borbotta tra sé qualcosa come «dove cazzo vanno con quei bauli». Forse lo pensiamo tutti.
Salgono dalla porta centrale, che in realtà è quella per scendere. I bagagli poggiano su rotelle esauste. Sono così grandi che al ragazzetto arrivano al petto. Li issano a fatica, prima uno e poi l’altro, i capelli scombinati sulla fronte. Le due bambine salgono da sole, hanno voglia di essere grandi, si aggrappano al corrimano e ridono. Gli altri passeggeri le guardano divertiti.
Il ragazzo si mette vicino alle sorelle, trascina una delle valigie vicino a sé, prende il telefono dalla tasca dei pantaloni e ci si perde dentro. La madre, con una ruota dell’altra valigia, prende contro il piede del signore anziano, che urla dal dolore e tira qualche canchero a caso.
Lei porta la mano alla bocca, è spaventata, si scusa. Si avvicina al signore, gli appoggia una mano sulla spalla e lo guarda dal basso: è molto più alto di lei. Con un filo di voce e un italiano stentoreo, gli chiede: «fatto male?» È sinceramente preoccupata, gli occhi neri chiedono perdono.
Il signore zoppica sul posto, qualcuno si alza e lo fa sedere. Non guarda la ragazza, si massaggia la punta del piede, senza togliere la scarpa. Lei non leva la mano dalla spalla di lui, come se quel tocco potesse trasmettergli sollievo o per lo meno il senso di dispiacere che prova.
Alla fermata seguente, il posto accanto al signore si libera e la ragazza gli si siede vicino. Lui continua a tenersi il piede con le mani, ma adesso alza lo sguardo e incontra quello della sua attentatrice. La smorfia di dolore si attenua e gli occhi di lei non sono più supplicanti, ma sollevati.
Il signore guarda le due bambine che ridono e si schermiscono, un po’ si vergognano e un po’ si divertono. Col mento indica le due valigie enormi: «viaggio lungo?»
La ragazza sorride: il signore sta bene, non è arrabbiato. Fa sì con la testa, gli dice che stanno andando a casa per Natale. Prenderanno l’aereo e voleranno a Jaipur, poi staranno tante ore su un autobus sgangherato e infine arriveranno nel villaggio dove lei è nata. I bambini non ci sono mai stati, sarà la prima volta che vedono la nonna, il bisnonno e almeno una trentina di altri parenti. Anche lei non ci torna da anni; non vede l’ora di riabbracciare sua madre.
«E il papà? Dov’è?»
«Papà qui. Lui lavora».
Il signore annuisce. Stavolta sorride anche lui.
«E tu?», gli chiede lei.
Lui agita una mano in aria e alza le sopracciglia, come a dire che quelle sono frivolezze. Lui è solo, la moglie non c’è più da anni, i figli non sono mai arrivati. Ma ci è abituato, guarda la tv, si prepara la minestrina e va a letto presto; è un giorno come gli altri, una scusa per spendere, ma loro fanno bene a stare in famiglia.
Il ragazzetto guarda fuori dal finestrino e mette via il telefono; dice solo «mamma». Lei sorride di nuovo al signore e si alza. La loro fermata è la prossima, quella da cui parte il treno per l’aeroporto.
Mentre si aprono le porte, il signore si rimette in piedi e li aiuta a poggiare a terra le valigie. Il piede non fa più male.
Le porte si chiudono, la ragazza si guarda indietro: vuole ringraziare il suo compagno di viaggio, ma non fa in tempo. Si scambiano un ultimo sorriso. Le bambine salutano il signore con le manine e lui ricambia come fosse il loro nonno.
Il bus è ripartito, siamo già lontani da loro, ma il signore continua a guardare in quella direzione. Il sorriso non se ne vuole andare, gli rimane sul viso come disegnato, quasi una smorfia. Da dove sono seduto, gli vedo gli occhi brillare.
Valigie
di Vanni Santin