Cara Gallinella,
il nostro amore ha compiuto dieci anni. Ricordi come ci siamo conosciute? Io ero in piena sindrome da nido vuoto: marito evaporato, figlio (finalmente) affrancato. Ed è stata questa prateria di libertà ad innescare l’orfanaggio1. Ho scoperto che sentivo la mancanza di radici.
Radici di luogo, prima di tutto, quelle che ho sempre sentito deboli, superficiali, come se non riuscissero a trovare nutrimento in un terreno argilloso, compatto e asfittico. Non ho un luogo natìo: là dove sono nata, in una strada di casette e orti, ora ci sono i palazzoni anonimi e sgraziati degli anni Sessanta. In seguito i traslochi sono stati frequenti: ogni volta occorreva riambientarsi, collocarsi in uno spazio ignoto e in relazioni destinate a dissolversi.
Così per anni ho cercato un luogo a cui potessi sentire di appartenere. Lo trovavo nelle case antiche, o anche solo vecchie, in cui le generazioni si erano succedute e avevano impregnato delle loro tracce i pavimenti irregolari, i muri spessi e alti, i complicati chiavistelli delle porte. Non importa che fossi solo ospite: per il tempo in cui ci stavo mi sentivo “adottata” da una dimora di famiglia.
Ha cominciato a prender forma in me un pensiero, quasi un miraggio: certo sarebbe bello avere un posto mio in cui rifugiarmi, in cui ricrearmi lo spirito e lo sguardo.
Ho cominciato a cercarti. Dovevi essere una casa già esistente, già vissuta, vicina al mare ma distante dalle brutture della costa, incastonata in uno di quei borghi antichi dove il grigio variegato della pietra si sposa con il grigio argenteo degli uliveti. Un luogo in cui intessere relazioni, mettere qualche radice. E poi una casa bella secondo i miei criteri: che avesse armonia e storia.
Un giorno di un agosto caldissimo il miracolo si è compiuto: una molto simpatica e molto incinta agente immobiliare mi accompagna a ***. Salendo in auto ci lasciamo man mano alle spalle i condomini chiassosi, i centri commerciali, le villette pretenziose. La vegetazione comincia ad assediare la strada che si inerpica, curve su curve, costeggiando paesucci dominati da chiese austere, per poi stringersi, cintata dagli ulivi, e arrampicarsi ancora. Percorriamo a piedi un vicolo tortuoso, stretto tra semplici case di pietra ingentilite dalla vite vergine. Un passaggio coperto si apre su uno slargo irregolare, saliamo una ripida scala, la porta si apre e… chi ha detto che non esistono i colpi di fulmine?
La vetrata in fondo ha calamitato il mio sguardo appena varcata la soglia: aperta su un giardino dei sogni punteggiato dal rosso acceso degli oleandri in fiore, con una profusione di limoni che chiedevano di essere raccolti, le palmette, la rosa e altre piante bizzarre che avrei imparato a riconoscere col tempo. Un giardinetto che cingeva come una corona una piccola terrazza con un grande tavolo, intorno al quale ho subito immaginato l’affollamento degli amici. Fuori, una festa di colori; dentro, una luce che allagava le stanze e accarezzava i mobili: legno di castagno e legno di pino, artigianato locale e produzione tedesca.
Sei stata un’amante fedele, ospitale verso gli amici, tollerante per la manutenzione approssimativa, talvolta capricciosa. D’inverno sei fredda, forse offesa per le lunghe separazioni, ma ardente, anche troppo, in estate. Mi hai costretto a sopportare le pizzicature dei pappataci ed elaborare rituali per cacciare le zanzare: dalle romantiche quanto inefficaci candele alla citronella ai vasi di basilico, fino a rassegnarmi ai brutali spray ammazzatutto.
Mi hai amato di un amore esigente: hai preteso che delle robuste chiavi in acciaio tenessero insieme dei muri che volevano andarsene per conto proprio; hai una costante tendenza a flirtare con l’acqua piovana, sia che si infiltri dal tetto o che si insinui sotto le porte; ti diverti a lasciar cadere i listelli delle persiane proprio quando qualcuno passa nel vicolo. Devo far attenzione a tutti gli acciacchi e ai segnali di malessere, proprio come si fa con lo stato di salute degli anziani. Ma mi hai dato la tua storia e la tua anima. Mi hai dato radici nuove.
Con te ho trascorso periodi affollati di amici e periodi solitari, in cui respiro il tuo silenzio, mi cullo nel guscio dei muri scabri e bianchi di calce, alterno le letture con qualche pulizia estemporanea. Quasi ogni giorno però mi concedo una fuga nel borgo. Il rituale è sempre lo stesso: risalgo il carruggio, la spina dorsale del paese, che ha minime diramazioni ai due lati, come fossero braccini e gambette. Incontro Elsa che torna dall’orto, Marisa che scende in paese per la spesa, Antonio che va alle serre. Si scambiano due chiacchiere, ci si dà appuntamento per la partita serale di bocce con i Tedeschi, sempre più numerosi e sempre più mediterranei. La vegetazione, il clima, la vicinanza del mare li ubriaca quasi quanto il vermentino: dopo pochi giorni conoscono e abbracciano tutti.
I veri padroni del carruggio sono però i gatti e i cani, amichevoli con gli umani e disinvolti nel varcare qualsiasi porta aperta, però con zone di competenza regolate da imperscrutabili leggi.
Le galline sono arrivate per caso: le prime sono state il bottino di mercatini e sagre. Un altro amore a prima vista, come per te. Mi commuovono, così incerte tra il sembrare stupite o stupide, così tenerelle epperò gonfie di prosopopea. Gli amici le hanno via via incrementate, ad ogni visita o compleanno: galline soprammobili, ma anche vassoi, tazze, portauova, portalaqualunque, strofinacci, disegni, ecc. Non c’è stanza senza pennuti, ormai.
Così il tuo nome, la Gallinella, è arrivato con naturalezza. Ed ora chi arriva trova di fianco alla porta una insegna di ardesia grigia, una losa, con nome e profilo di una pollastrella grassa, in malcerto equilibrio sulle zampe.
Ti ho tradita? Sì, qualche volta. Il mondo presenta qualche attrattiva che tu non hai. Ma sono sempre tornata.
Grazie, Gallinella mia, giardino dei sogni realizzati.
1 Orfanaggio è un termine bruttino e desueto, lo so. Ma esiste, e si ritrova in documenti del XX secolo.