Come cominciò? Come cominciò? Come cominciò quel viaggio, quell’avventura che tanto e così a lungo avrebbero inciso nelle nostre vite?
Un pomeriggio uggioso di fine ottobre al rientro dalla scuola elementare di Garbagnate Milanese, quartiere Quadrifoglio, dove insegnavo nelle attività parascolastiche comunali, prima ancora di scendere dall’auto vidi Marta, nostra figlia, che vistosamente faceva cenni dietro i vetri della finestra di cucina. “Papà ha telefonato, ha detto che è fatta, ci trasferiamo in Jugoslavia”.
Dunque era avvenuto. Più volte in passato avevamo preso in considerazione una simile eventualità, sempre però più come un’idea intrigante che come una reale possibilità. Poi una serie di fortuite coincidenze avevano fatto sì che la nostra ipotesi si concretizzasse. Una joint-venture tra l’Italia e la Jugoslavia per una nuova fabbrica di vernici in Bosnia, un collega di Alberto che avrebbe dovuto esserne il direttore e che in seguito aveva rinunciato, il desiderio grande di Albe di accettare quel posto come una sfida, Marta e Nicola che quell’anno avrebbero concluso il loro ciclo scolastico, medie e liceo, io che ogni anno non sapevo mai se il Comune mi avrebbe rinnovato il contratto per insegnare alle elementari.
Eravamo sul finire degli anni ’70. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, la politica che sembrava incapace di affrontare la pericolosa situazione che si era creata, manifestazioni quasi quotidiane a Milano e nelle altre città italiane che spesso degeneravano in atti di violenza con morti e feriti. Il timore e l’ansia se Nicola tardava a rientrare. Tutto concorreva a far sì che accogliessimo il trasferimento con sollievo.
All’annuncio di questa notizia quasi tutti i parenti furono sconcertati. Avrebbero sicuramente accettato di buon grado l’idea di un nostro trasferimento ad Ovest, USA per esempio dove Alberto aveva lavorato all’inizio della sua carriera acquisendo brevetti rivelatesi determinanti per il suo curriculum, ma la possibilità di un nostro spostamento ad Est li lasciava perplessi. Invano cercavamo di spiegare loro i motivi della nostra decisione, le opportunità che si aprivano per la carriera lavorativa di Alberto, il ritorno economico, la voglia di dare una svolta alla nostra vita, la curiosità di conoscere dall’interno un paese che sperimentava una nuova forma di ordinamento politico. Anche se non espressa a parole, si leggeva chiaramente sul loro volto la contrarietà. “Ma perché questi due devono sempre fare il contrario di quanto fa la gente normale?” Anche questa volta non ci capimmo.
Intanto padre e figlio, con notevole inventiva e maestria, impiegavano tutto il loro tempo libero a trasformare un furgone Ford Transit acquistato per l’occasione, in un simil camper aiutati dai preziosi suggerimenti di un eccentrico professore di educazione artistica di Marta, Ezio che, sognando la California, si accontentava per il momento di andare in camper in Grecia. Furono bravissimi e quando Alberto all’inizio del nuovo anno si trasferì a Livno, la trasformazione era avvenuta. Con questo mezzo ci ripromettevamo di viaggiare e di conoscere il paese che ci avrebbe ospitato.
Nell’offerta di lavoro erano comprese anche lezioni di serbo-croato da parte di un’anziana professoressa madre-lingua che abitava a Milano. Se mai avesse avuto in tempo passato motivazioni per insegnare la sua lingua, adesso le aveva perse del tutto. A parte i pronomi personali e pochi rudimenti grammaticali, apprendemmo, importantissimo, che si diceva Bosna e non Bosnia!
Era il 1979, niente internet e pochissimo materiale reperibile nelle librerie, nelle agenzie di viaggio e neppure al Consolato. Io mi facevo forte della lettura de “Il ponte sulla Drina” di Ivo Andrić, fatta anni prima quando gli avevano assegnato il Nobel per la letteratura e pensavo per il momento bastasse!
I preparativi non furono né semplici né veloci. A poco a poco il nostro appartamento fu invaso da scatoloni che venivano accuratamente riempiti e mai chiusi definitivamente: che cosa ci sarebbe servito per due anni? Ignoravamo che gli anni sarebbero diventati felicemente quattro.
Partimmo lo stesso giorno che Nicola finì gli esami di maturità. Iniziava l’avventura. Eravamo insieme, eravamo giovani, pieni di aspettative, con l’animo leggero, un po’ incoscienti. Cantavamo, i ragazzi ridevano. Un momento molto vicino alla felicità. Andava tutto bene, anche la sosta prolungata a Gorizia per un improvviso incontro di lavoro di Alberto, il suo talento nel non scegliere mai la strada più diretta che ci portò a girovagare per la Slovenia invece di dirigerci verso la Bosnia, le strade dissestate, i distributori di carburante rari o sforniti, i pernottamenti qualche volta di fortuna.
Le fermate alle “gostionice” dove all’aperto su grandi spiedi, si cuocevano carni e preparazioni dai sapori nuovi, la capacità di Alberto di lasciarci scoprire queste novità senza rovinarci la sorpresa. Guardavamo le persone, i luoghi i panorami con occhi nuovi. Era nei nostri occhi la magia.
E così quando avvicinandoci a Livno in un pomeriggio dorato vidi per la prima volta una donna vestita secondo il costume musulmano, pensai che saremmo vissuti nel paese di Aladino. Ognuno di noi quattro di questo viaggio ricorda cose diverse. Mischiamo particolari, aggiungiamo dettagli, ricordi che risentono inevitabilmente delle esperienze lì vissute e del tempo ormai trascorso. Ma quando ne parliamo sorridiamo sempre. E mentre scrivo, Marta sta prenotando il volo aereo per andare a Livno dove a fine luglio festeggerà con i suoi compagni (quanti ce ne saranno?) la “matura” del 1984.
Controcorrente
di Maria Gemma Girolami (Cislago, VA)