Il cicalio della macchina dei parametri vitali arrivava fino al corridoio. Helen entrò. I suoi genitori e la moglie di zio Peter erano intorno al letto. La madre di Helen piangeva e i suoi riccioli biondi sobbalzavano a ogni singhiozzo. Helen si fece spazio tra loro. Era una donna adulta ormai, ma pesava come quando aveva tredici anni. Suo padre le mise una mano sulla spalla e lei gli sorrise, poi si voltò e incrociò lo sguardo con Peter. Gli occhi neri, velati. Aveva la mascherina del respiratore attaccata e quando vide Helen cercò di togliersela con le dita tremanti. La moglie di Peter gli tenne la mano.
Cosa c’è?
Lui la guardò, poi si voltò a guardare Helen.
Vuoi parlare con Helen?
Peter annuì.
Helen si avvicinò e si chinò verso l’uomo disteso sul letto. Peter cercò la mano della ragazza, ma non la trovò. Alzò leggermente il capo dal cuscino e con un gesto brusco si tolse il respiratore. L’elastico verde schizzò via. Mi spiace, disse con affanno. Mi dispiace. Helen esplose in un pianto incontrollabile. Si allontanò e uscì dalla stanza. Si avviò lungo il corridoio guardando ogni faccia che incontrava con gli occhi di spalancati e vacui di una cerva braccata. Arrivò nell’atrio dell’ascensore. C’erano due uomini fermi ad attendere davanti alle porte. Uno di loro era grasso e indossava una tuta da ginnastica, l’altro era magro e aveva la faccia butterata. Si voltò sulla destra e vide la rampa di scale. Scese giù saltando un gradino ogni due. Quando arrivò al piano terra attraversò un corridoio stretto dove sul lato destro c’era una fila di porte chiuse. Una di queste aveva un oblò quadrato. Passò oltre rapidamente per superare la tentazione di guardare dentro quell’oblò, dopodiché si ritrovò nell’atrio degli ascensori al piano terra. Non c’era nessuno. Vide la grande porta di vetro che portava nel giardino dell’ospedale e la oltrepassò. C’erano aiuole e piante di magnolia grandiflora e tutto odorava di fiori marci. Si sedette su una panchina di marmo con i braccioli in ferro battuto e riprese a respirare.
Un pomeriggio di tanti anni prima era nella sua cameretta a fare i compiti di matematica. Frequentava l’ultima classe delle scuole inferiori ed era maggio. Gli esami erano prossimi e Helen stava diligentemente risolvendo tutte le equazioni del suo eserciziario. La sua scrivania era perfetta. Le penne infilate in una latta di alluminio arancione tutte con il tappo all’insù. Una gerbera violacea dal lungo stelo se ne stava quasi dritta e solitaria in un vasetto di vetro all’angolo destro della scrivania. Di tanto in tanto la brezza primaverile muoveva le tende leggere e il lembo inferiore del suo vestitino pesca di cotone leggero, quello con i bottoni davanti.
Sentì camminare nel corridoio. Non erano i passi di sua zia. Erano pesanti e goffi. Poi qualcuno bussò alla porta. Era lui, Peter, suo zio. Aprì la porta leggermente e la guardò con un occhio solo dallo spiraglio. Una goccia di sudore rotolò dalla fronte di Helen e cadde sul quaderno di matematica. Non si voltò, non guardò quell’occhio nello spiraglio. Quello stesso occhio che tante volte l’aveva scrutata.
Afferrò i lembi del suo vestitino di cotone e li congiunse tra le ginocchia strette. Sapeva cosa voleva lui e sapeva che se lo sarebbe preso comunque.
L’occhio sparì per pochi secondi, poi riapparve. La mano di Peter si strinse intorno al battente, poi con una mossa repentina, strisciò dentro la cameretta di Helen. Una destrezza che non ci si aspettava da lui per via di quella sua grossa pancia.
Devo finire matematica.
La finirai dopo.
Domani c’è l’esame.
Lo supererai. Sei una brava studentessa.
Non sono preparata a sufficienza.
Chiedi troppo a te stessa. Sei preparata.
E tu che ne sai?
Lo so.
Ma adesso non mi va.
Vuol dire che non vuoi più bene a tuo zio?
Helen lo guardò. Gli occhi di una piccola cerbiatta braccata. Tu sei il lupo, zio?
Sì, piccola. La camicia aperta davanti. I peli bianchi sempre più cospicui sul suo petto. E tu sei il mio cappuccetto rosso.
Peter prese la sedia e si sedette di fianco a lei. Helen stringeva i lembi del vestitino tra le ginocchia, ma lui ne tolse uno, delicatamente, come se stesse staccando un petalo da un fiore rosa e calloso.
Perché, zio?
Perché così vanno le cose.
Sempre?
Sempre.
Nel giardino interno dell’ospedale Helen contemplava uno degli alberi di magnolia grandiflora. Era ormai fine settembre e i fiori che alcuni mesi prima erano stati di un rosa sgargiante, ora erano quasi secchi e arrugginiti. Aveva letto su un vecchio libro di botanica che il fiore della magnolia è ermafrodita. Raccolse un bocciolo da terra e con minuziosa precisione tolse tutta la parte marcia. Appoggiò il fiore menomato sulla panchina, poi alzò lo sguardo verso l’azzurro e crudele di fine settembre. Pianse un po’, poi ebbe un fremito e tirò su il naso.
Davanti alla panchina passarono due medici con i loro camici bianchi che discutevano a voce bassa della diagnosi di un paziente terminale. Nemmeno la notarono. Dopo un po’ dalla porta a vetri uscì quell’uomo grasso con la tuta in compagnia di quello con il volto butterato che aveva visto davanti all’ascensore. Le passarono accanto e quello grasso le guardò le gambe accavallate. Helen gli lanciò un’occhiataccia, ma quell’uomo non ebbe modo di coglierla.
Prese le sigarette dalla borsa e se ne accese una. Fece un paio di boccate nervose, poi appoggiò il gomito sul bracciolo in ferro battuto con la sigaretta tra le dita. Il fumo saliva tremolante verso l’alto come una biscia che corre sull’asfalto caldo. Alle sue spalle arrivò sua madre, anche se Helen aveva avvertito la sua presenza non si voltò.
Tuo zio se n’è andato, Helen.
Lei fece un altro tiro alla sigaretta.
Hai sentito cosa ti ho detto?
Helen si voltò. Lo sguardo duro. Tirò di nuovo alla sigaretta.
Hai ripreso a fumare?
Annuì. La sua gamba destra prese a tremare.
Lo hai raccolto tu questo fiore?
Helen la guardò, ma non aprì bocca. Poi si voltò a guardare davanti a sé.
Che ti succede?
Niente, rispose.
Sarà il caso di rientrare.
Io rimango qua.
Non vuoi vederlo per l’ultima volta?
No.
Perché?
Perché non sarà mai l’ultima volta.
La madre abbassò lo sguardo.
Io me ne torno a casa, disse Helen. Spense la sigaretta sulla panchina di marmo, poi si alzò.
Perché non aspetti. Torni con noi.
Non mi va di aspettare. Questo posto non mi piace. Helen guardò sua madre. Puzza di fiori marci.
Hai ragione. Sono tutti marci.
Helen sospirò. Be’ vado, disse e si avviò verso l’uscita.
Devi dimenticare, Helen. È per il tuo bene.
La ragazza si fermò, ma non si voltò. Io non voglio dimenticare. Poi aprì la grande porta di vetro che dava verso l’uscita e se ne andò con la borsetta stretta sotto il braccio.