Viaggiare dentro la città in tram, con l’autobus o meglio ancora col filobus, un gigante snodato che ronzava sornione mentre si muoveva, era più attraente che guardarla correre fuori dai finestrini dell’automobile. La vista dalla posizione elevata ad un livello superiore le consentiva di apprezzarla a fondo. Viceversa, se camminava, gli occhi erano troppo vicini al suolo e non potevano rivelarle certi segreti.
La bambina aveva imparato che le strade variavano. Una via diventava corso, se la larghezza aumentava, o viale, se comparivano gli alberi in fila, oppure una piazza, se era un incrocio di strade. Immaginava, che gli spazi sarebbero stati infiniti senza la presenza degli edifici. Di essi valutava la forma, la grandezza, i colori. In periferia vi erano palazzi enormi, identici tra loro e poco simpatici, però per la maggior parte le facciate erano diversissime. Case alte, basse, bizzarre, originali o insignificanti, vecchie e nuove, tutte le dicevano, io sto qua costruita per occupare questo posto, nessuno mi può spostare, mi devono demolire per togliermi di mezzo e liberare cosa c’è oltre, il che non è mica facile, perché io sono abitata, la gente si appartata nei miei alloggi, si rifugia per riposare, ci entra e ci esce, ci vive e ci muore.
Anche tu, a casa ci vai.
Mangi. Dormi. Giochi. I compiti ci fai.
Ma tante son le cose che non vedi e che non sai!
Quando le porte si aprivano per far scendere o salire i passeggeri, ecco che percepiva quelle voci di case. Formavano un coro parlante, che ritmava lentamente una cantilena. La sua anima di piccola veniva agitata da una sensazione di già ascoltato, ma in un tempo che non le apparteneva. Invece, là dove vi erano dei negozi, purché avessero le serrande alzate, si contrappuntavano dei canti, sotto forma di gorgheggi suadenti, che invitavano a scendere dal mezzo per entrarvi e farsi ammaliare da quanto esponevano in vendita. Così lei si accendeva, spinta dal desiderio di un nuovo giocattolo, che manco aveva idea quale potesse volere. Le porte si chiudevano, le voci tacevano, i canti cessavano. La bambina si ricomponeva sino alla fermata successiva.
Nel frattempo, avevano costruito il metrò. La bambina aveva sentito dire, che si raggiungeva con scale che portavano al di sotto dei marciapiedi. Pensava, forse è la stessa cosa di quando con il babbo scendiamo nella cantina di casa. Anche là ci saranno cose che non esistono di sopra e stanno quasi sempre al buio, facendosi scoprire non appena la luce si accende. Sembrano contente e vogliono farsi ammirare. Mi piace guardarle e toccarle, alcune posso prenderle nelle mani per giocarci.
La bambina era andata in metrò, ove di allettante da toccare non aveva trovato niente. Tuttavia, nel provarlo la prima volta insieme a mamma e papà pochi giorni dopo l’inaugurazione, qualcosa l’aveva colpita. Intanto i treni, più simili a tram lunghissimi. Una volta caricata la gente partivano a velocità pazza, in un gioco ad inseguimento tra loro, ma non si raggiungevano mai. Questo folle movimento avveniva nel nascosto sottoterra, senza che l’insieme di treni, gallerie, stazioni, passeggeri si curasse del peso smisurato della città sopra. Il rombo del convoglio si propagava spaventoso nella galleria semi buia, distinguibile dai finestrini solo per una riga bianca, saliscendi sul muro di fianco, che si dissolveva alla luce della stazione. Arrivando alla fermata, non c’era scritto “via”, “piazza” o altro che si riferisse ad un luogo riconoscibile, ma semplicemente una parola nuda e muta. Persone famose, private del nome di battesimo, città e date storiche erano ridotte ad astratte etichette applicate lungo un disegno stilizzato del percorso, esposto qua e là nelle stazioni o nei vagoni. La bambina aveva notato subito che le fermate erano tutte all’incirca uguali. Si distinguevano unicamente attraverso quei codici, adattati per la città sotto, immagine riflessa in uno specchio distorcente della città sopra.
La ragazza usava il metrò, per spostarsi nella città sotto, eludendo il dedalo inestricabile della città sopra. Considerava logico, che ogni informazione fosse semplificata, compresi i nomi ridotti ad una indicazione, i percorsi trasformati in fettucce colorate a tenere uniti i pallini neri delle fermate. Una necessità, se col tempo le fettucce s’allungavano, ne comparivano di nuove, si biforcavano agli estremi e formavano altri incroci, con i pallini neri che proliferavano. Accettava l’espansione inesorabile di quella specie di apparato circolatorio artificiale che era la città sotto, progettato per mantenere in vita il corpo complesso della città sopra. Nel momento in cui gli esseri umani si calavano nella città sotto, si trasformavano in microscopici globuli del sangue urbano. Lei e gli altri, tanti uomini, donne, che lavoravano, che studiavano, o che andavano chissà dove, per risalire infine in qualche punto della città sopra. Li avrebbe incontrati ad ogni ora, mai gli stessi, senza poterli conoscere, ma soltanto osservare, forse cogliendone un vago umore, di sicuro nessun pensiero. Poi, c’erano gli individui che passavano il giorno e la notte nella città sotto. Che ci facevano? Umani veri che affrontavano lì la loro esistenza? Oppure erano immagini degli abitanti della città sopra, riflesse da uno specchio distorcente?
La donna s’è allontanata dalla città, dal suo caos infernale. Ne ha perduto il desiderio. Certe notti, sogna, le appare una stazione sotterranea, diversa da quelle che conosceva del metrò. L’illuminazione è offuscata dal buio che riempie la stazione, scivolando dalla città sopra, inconoscibile, ammesso che esista. Binari di una ferrovia si spandono, scomposti dagli innumerevoli scambi. Una locomotiva avanza lentamente verso di lei e l’avvolge sbuffando di vapore. Più in là nella penombra, una folla impaziente sulla banchina è in attesa di un treno, intanto che la locomotiva va avanti e indietro. Manovra, passando da un binario all’altro, scartando tra uno scambio e l’altro, come se non avesse alcuna intenzione di decidersi, per continuare quel gioco all’infinito. Nel sogno, la città sopra non pulsa, è spenta, inesistente. Riappare con tutta la sua pesantezza immane non appena lei si sveglia. Il sopra e il sotto ritornano al proprio posto. La memoria rivede per un attimo la luce di una lontana città sopra, mentre quella sotto è già tornata nell’oblio d’un invisibile passato. Fino alla prossima notte.