Settembre è arrivato in punta di piedi. In silenzio sta colorando le chiome degli alberi che si muovono pigri al vento.
Il sole non morde più la pelle, ma l’accarezza. Quasi malinconico si appoggia anzitempo sui tetti delle case, colorando l’orizzonte.
Non riesco a distogliere lo sguardo da questo cielo che ha tutte le sfumature del viola, tanto da sembrare in quadro astratto.
Il profumo dell’ultimo taglio di prato, mi invade i polmoni e mi procura un senso di vertigine. Chiudo la finestra. Sul letto la tua lettera. Solo tu potevi raggiungermi in questo modo così desueto e sorpendente.
Chissa per quale motivo, la prima cosa che mi è venuta in mente, appena finito di leggerla, è stata la favola che mi hai sempre raccontato quando ero piccola.Credo che tu non me ne abbia mai raccontate altre. Me la ripetevi tutte le sere prima di addormentarmi. Infinita replica di quello che, probabilmente, era per te solo un dovere.
Eri brava a modulare la voce, a renderla greve quando la storia lo richiedeva, a modificare i tuoi lineamenti fino a diventare una maschera drammatica, per poi trasformarti di nuovo e riprendere lieve e allegra, man mano che la storia si avvicinava al lieto fine.
Hai sempre avuto molte maschere e sei sempre stata brava a indossarle senza mai sbagliare il momento, questo te lo devo riconoscere.
Quella favola mi ha accompagnato per tutta l’ infanzia e mi ha inseguito anche quando ti sei stancata di raccontarmela, quando ti sei stancata di farmi da madre.
Forse avevi pensato che mettermi al mondo, riempirmi uno spazio di animaletti di peluche, addobbarmi con fiocchetti rosa e vestiti confetto, procurarmi un lenzuolino coordinato e ricamato a mano per la mia culla, potesse bastare.
Sostituire la tua voce con una ninna nanna metallica, frutto di uno sgangherato carillon, era tutto quello che sapevi fare quando non riuscivo a trovare pace. Una ballerina sghemba che gira su di un piedistallo lucente, era la cura per tutti i miei mali.
Ma poi hai compreso che avevo bisogno di altro.
I pannolini da cambiare, il culo da pulire, le pappe che regolarmente sputavo macchiandoti coscienza e vestiti. Le notti in cui eri costretta a vegliarmi e che ti causavano quelle occhiaie che odiavi, momenti che hai vissuto come drammi in cui ero l’unica colpevole.
E presto, molto presto hai compreso che sarei cresciuta. Che ti avrei chiesto di un padre che non ho mai conosciuto, di aiutarmi a fare i compiti, di accompagnarmi nelle scelte, per te banali e senza importanza.
La tua libertà veniva erosa giorno dopo giorno, i tuoi seni appassivano come la mela malata della tua fiaba preferita e le passeggiate con soste su panchine all’ombra, erano un continuo confronto con altre mamme che dei loro figli avevano fatto una religione.
Avrei voluto essere nella tua testa per comprendere quale sforzo ti sia costato non dire quello che in realtà pensavi delle loro esistenze.
So che non lo hai mai fatto. Ti sei sempre limitata a sorridere e ad annuire, scegliendo le parole più adatte, soppesandole e pronunciandole con la consueta maestria.
Il miele è per le api, amavi ripetere.
Tu le nutrivi con il loro stesso prodotto, pronta a scacciarle o schiacciarle quando davano eccessiva noia.
Hai sempre dato al tuo interlocutore quanto si aspettava, illudendolo di averti al suo fianco o di essere sua. In realtà hai sempre usato le persone che ti hanno accompagnato, attaccandoti a chi ti serviva come fa un parassita, succhiando tutto quello che poteva essere utile per soddisfare le tue esigenze fatte di vestiti, serate mondane e lunghi giorni passati sdraiata al sole a far niente.
Ricordo ancora, quando mi permettevi di stare seduta in bagno a guardarti mentre ti preparavi per uscire. Non andavo a scuola ma già capivo che non sarei mai stata bella come te, e che forse, era anche quello il motivo per cui non mi amavi.
Restavo in adorazione ad osservare il tuo volto riflesso allo specchio che assumeva ad ogni colpo di trucco, sembianze da dea. Il rossetto sottolineava le labbra perfette, la matita esaltava i tuoi occhi che erano già bellissimi. Di un azzurro intenso, insolito. Il tuo sguardo era un cielo carico di nubi intrise di pioggia.
Intorno a te gettavi un fascino oscuro a cui nessuno sapeva resistere.
Vittime.
Guardavo ammirata la tua abilità nell’accostare i colori, la scelta dell’intimo che, ancora lo ignoravo avresti mostrato con disinvoltura.
Una sera mentre mi raccontavi la solita storia, in fretta però perchè eri pronta per uscire, profumata ed elegantissima, ho pensato che potessi essere tu la strega della favola che metodicamente mi raccontavi.
Così bella, così attenta a non invecchiare mai. Così pronta a cogliere tutte le occasioni che ti si presentavano per succhiare l’energia vitale di chi ti stava al fianco.
Mi porgevi in continuazione la tua mela.
Quella sera feci finta di dormire perché non ne potevo più del tuo profumo e della tua ombra prolungata sul cuscino.
Ti ho immaginata nelle braccia di un Re che non ho mai conosciuto. Mi sono chiesta chissà quale storia gli avresti raccontato. Senza conoscere il suo volto l’ho profondamente odiato e ricordo che mi promisi, semmai me lo avessi presentato, che non gli avrei mai permesso di toccarmi con un dito nè rivolto la parola.
Crescendo ho capito che di pretendenti ce n’era più di uno, il tuo regno effimero si reggeva sulle tue carni sode, sulla tua pelle levigata.
Tutto quello che avevi dipendeva dal tuo involucro.
Dai sogni che sapevi regalare muovendoti, da quanto e come ti sapevi vendere, da quanto erano disposti a pagare per comprarti.
Apparivi e sparivi, proprio come una strega.
Incolpevole per la legge degli uomini, ma non a quella di un Dio che per necessità hai invocato in preda a una collera cieca, imprecando contro un qualche tipo di sfortuna.
Era sempre colpa d’altri.
Credo di essere l’unica ad aver visto il tuo vero volto. Credo di essere l’unica ad aver udito la tua voce, priva di quell’odioso miele che riservavi solo in certe occasioni.
Spesso hai recitato anche con me, regalandomi frasi finte come le cene cotte al microonde e sbattute sul tavolo. Poi hai smesso, o almeno ti sei limitata nelle tue farse.
Sono cresciuta e per qualche anno abbiamo vissuto nella stessa casa, ma seguendo strade distinte, seppur parallele. Io nella mia camera, tu nella tua. Ogni tanto ci incontravamo in cucina dove frasi di circostanza venivano vomitate per rendere meno insopportabile il silenzio.
Tu continuavi ad usare gli uomini e a non essere mai sola, io a farmi usare e passare notti in camera a piangere.
Tu continuavi ad essere bella ed impeccabile, io non mi curavo affatto, tanto che a volte, sembravo essere tua madre.
Quando è arrivato il momento dell’ inevitabile distacco, mi hai salutato con un abbraccio sulla porta di casa, ma non sei riuscita a dirmi neppure una parola.
Prima salire in macchina ed andarmene, mi sono voltata e ti ho vista alla finestra con il tuo solito sguardo impenetrabile. In quel momento avrei voluto che tu mi fermassi.
Magari hai versato anche una lacrima, ma questa è la mia speranza.
Ma “resta” o “torna”, non me lo hai mai detto. Non mi hai mai fermato.
Ora sei tornata, sei qui. Anche se solo con una lettera.
L’ho riletta decine di volte e mi chiedo cosa ti abbia spinto a scriverla. Forse perchè con una telefonata saresti stata costretta a rispondere alle mie domande. Così la replica è più difficile. Venti righe di inchiostro, per spiegarmi tutto. Per ricucire un tempo che, spesso, mi è sembrato infinito.Anche in questo caso sei stata diretta, non hai usato giri di parole.
Stai morendo, il cancro ti sta divorando e hai bisogno di me.
Ora che non hai più nulla da vendere se ne sono andati tutti. Gli uomini ti hanno lasciato sola. Non so se sono pronta ad incontrarti, ma so che verrò
La valigia è pronta, sul letto, di fianco alla tua lettera. L’ho preparata meccanicamente e solo al momento di chiuderla mi sono accorta che avevo messo i vestiti in ordine e abbinati per colore, come avresti fatto tu.
E’ tutto il giorno che penso al momento in cui ti rivedrò, a quando mi siederò a fianco del tuo letto. Toccherà a me raccontarti una storia qualsiasi per ingannare il tempo e aspettare che ti addormenti. Ma non ci sarà nessun incantesimo e non ti farò mangiare nessuna mela.
Avrò il coraggio di guardarti e consolare il tuo sguardo sconfitto
Ma forse non sarà nemmeno così. Forse continuerai a recitare, fedele fino all’ultimo a te stessa. Forse continuerai a spargere parole di miele, per me, stupida ape.
Allungherai la tua mano ossuta a cercare la mia e cercherai di ingannare, come sempre hai fatto, il tempo.
Lo hai fatto mille volte, anche quando hai scritto questa lettera.
Ho notato subito, dalla prima lettura, che la tua calligrafia si è fatta incerta e tremante verso la fine del foglio.
L’ultima riga è addirittura sbavata.
Ho pensato a una lacrima. Probabilmente hai pianto.
Questa in fondo è la fine di una favola.
Ma so che non lo confesserai mai.
Mi dirai che quelle sbavature non sono lacrime, ma solo gocce d’inchiostro.
La fine di una favola
di Stefano Borghi di Milano