Mentre mi abbottono la camicia, continuo a pensare a ciò che mi hanno detto: dovrò fare da guida a un mostro. Con un numero mai visto di occhi, braccia e gambe. Ma non è malvagio, perciò non c’è motivo che mi preoccupi. Viene da lontano, e si intende un poco di astronomia. Questo dovrebbe rendermi più semplice spiegargli la planimetria della città. Metto la sopravveste, infilo le scarpe e indosso il cappello. Davanti allo specchio sfoggio qualche sorriso, finché non trovo quello più amichevole. Un ultimo sospiro, ed esco di casa.
A mezzogiorno il sole avvolge le strade in un abbraccio tiepido, e i passanti si fermano a guardarlo con gli occhi chiusi per farsi accarezzare il viso dai primi raggi primaverili. L’appuntamento è tra pochi minuti, vicino alla fontana sopra la collinetta. Non ho tempo di godere del calore del sole. Mi chiedo che tipo di clima ci sia nel luogo da cui proviene il mostro, se quando spalanca le finestre la mattina vede la tundra o dune sabbiose. Se i suoi compaesani sono come lui o meno spaventosi.
Attendo davanti alla fontana. L’acqua scroscia in getti e zampilli acrobatici attorno al grande ariete dorato. Il primo dei dodici segni dello zodiaco, simbolo di questo quartiere. Il punto di partenza perfetto per cominciare la visita.
Un mezzo coperto trainato da due cavalli si ferma poco distante da me. La portiera si spalanca. Una figura avvolta in una lunga veste scende facendo attenzione a non cadere. Sopra quella che dovrebbe essere una testa, un copricapo bizzarro. Una sorta di grosso fazzoletto fissato con una fascia. Per qualche istante si guarda intorno sgranando gli occhi e aprendo la bocca. Il sole illumina i suoi piccoli denti. Poi fa segno al conducente del suo veicolo di andarsene.
Alzo anch’io una mano per farmi riconoscere. Il mostro si avvicina e gli do il benvenuto col mio sorriso migliore. «Ben arrivato. Spero abbiate fatto buon viaggio.»
«Meglio di quanto mi aspettassi, molte grazie. Immagino che voi siete la mia guida. Mi avevano avvisato che appena giunto in città vi avrei trovato immediatamente.»
«Per l’appunto, al vostro servizio.» Il mostro mi scruta con sguardo interrogativo, ma non sembra voler fare domande. Noto il manoscritto che tiene poggiato a sé, come se tenesse in braccio suo figlio. «State scrivendo un romanzo?»
«Oh, no, questi sono soltanto appunti di viaggio. La vostra città è una tappa irrinunciabile, bisogna che mi segni ogni singolo dettaglio. Ero impaziente di arrivare. Vogliamo cominciare subito la visita?»
«Certamente! Sono lieto di vedervi così entusiasta.»
Ci incamminiamo giù per la collinetta sulla strada principale, tracciata lungo la linea che percorre il sole durante il giorno. Il viale che la interseca – gli spiego – è invece orientato come l’asse attorno a cui ruotano i cieli. Chiamati a dettare le norme per la fondazione della città, gli astronomi stabilirono il luogo e il giorno secondo la posizione delle stelle.
«Qualcosa mi suggerisce che nemmeno l’ariete della fontana è casuale, dico bene?» Il mostro non mi rivolge nemmeno uno sguardo quando parla. È troppo impegnato a guardarsi attorno con aria sognante e meravigliata. O almeno questa è la mia impressione.
«Dite benissimo. Ci siamo appena lasciati alle spalle il Quartiere dell’Ariete, per addentrarci in quello del Toro. Gli astronomi disegnarono la mappa secondo i dodici segni zodiacali, così che ogni isolato, ogni vialetto e ogni angolo della città ricevesse il giusto influsso dalle rispettive costellazioni.»
«Dio del cielo, dalle mie parti ci vorrebbe proprio una buona stella che vegli sulla nostre sorti!»
Per un attimo rimango in silenzio, non so bene cosa dire. Poi gli pongo la domanda più ovvia. «Da dove venite, perché dite così?»
Il mostro si ferma e mi guarda dritto negli occhi. «Da una terra di guerre e sciagure continue, ecco da dove vengo.»
«Guerre e sciagure continue? Non capisco bene cosa intendete.»
«E come potreste, naturalmente? So che in questa città non esistono certe cose.»
Arrivati in piazza, ci sediamo su una panchina. In lontananza, piccolo come un dado da gioco, si vede uno dei portoni d’entrata della città. Poi il mostro mi lancia di nuovo uno sguardo serio. «Intendo dire che da me si muore facilmente. Per malattia, fame, sete di vendetta. Brama di potere. La guerra è proprio questo, il risultato dello scontro tra due o più fazioni, ognuna delle quali vuole imporre il proprio potere sulle altre. Per vincere bisogna uccidere.»
«Accidenti…» Non so cos’altro aggiungere.
«Beh, ma torniamo a discorsi più piacevoli. Proseguite pure, chiedo scusa per avervi interrotto.»
Mi sento sollevato all’idea di “tornare a discorsi più piacevoli”. «Vedete quel portone laggiù? Il punto in cui erigere le porte è stato calcolato in modo che ognuna inquadrasse un’eclissi di luna per i prossimi mille anni. Gli astronomi hanno assicurato che la nostra città rispecchiasse l’armonia del firmamento. E che la grazia degli dèi avrebbe dato forma ai destini degli abitanti.»
«Perinzia è davvero la città perfetta. E pensare che l’ho soprannominata “la città dei mostri”…»
Mentre sbottono la camicia, scruto la mia immagine davanti allo specchio. Per quanto ci provi, non trovo niente che non va. Ogni cosa è al suo posto. Le tre teste in alto, le sei gambe in basso. È così da quand’ero un poppante che emetteva urla gutturali dalla cantina dove i miei genitori mi hanno tenuto, fino all’età adulta. Come chiunque altro in questa città. Non comprendo proprio la ragione per cui il mostro si ostinasse a dire che gli abitanti non avessero niente a che vedere con la perfezione di Perinzia. Ma non posso fargliene una colpa. Con un solo cervello in una sola testa, non può che partorire pensieri sconclusionati. Guardare i suoi simili uccidersi a vicenda nelle guerre, o per vendicarsi di un torto subito. Ringrazio le divinità di non trovarmi nei suoi panni, con due soli occhi, due braccia, due gambe. La pelle così chiara. Come ha detto che si chiamava? Forse Marco Polo…