Nato nel 1962, gli eventi dei miei primi anni di vita furono accompagnati dal ricevimento di oggetti simbolo degli eventi stessi. Al battesimo mi misero al collo una catenina d’oro con la medaglietta di San Francesco; in prima elementare mio fratello maggiore mi passò il suo usatissimo astuccio col righello spezzato ed i mozziconi spuntati delle matite colorate. In terza elementare, finalmente ricevetti un astuccio nuovo, completo di tutti gli accessori e con le matite lunghe ed appuntite; l’astuccio contenente il compasso salutò l’ingresso in prima media, mentre per le tappe religiose, con la prima comunione e con la cresima ricevetti rispettivamente l’orologio e la penna stilografica. Con il conseguimento della licenza media, l’anelato motorino concluse questa fase caratterizzata da regali celebrativi; arrivò il consumismo, gli orologi di plastica e tutta una serie di articoli all’insegna del costa poco e vale meno, preludio della colonizzazione commerciale cinese di oggi.
Alla stilografica, per il periodo di riferimento, ho associato uno tra i più bei ricordi della mia infanzia. A scuola, seduto accanto a me non c’era solo il mio compagno di banco, ma anche l’amico del cuore ed il partner di mille avventure vissute o fantasticate. Era cominciato tutto per un motivo logistico: entrambi scrivevamo con la mano sinistra, per cui, ci avevano fatto sedere allo stesso banco. Io ero mancino dalla nascita, mentre lui, c’era diventato, anche se, a pensarci bene, non saprei dire né come e né perché. All’epoca, quella sua mano rigida, sempre ricoperta da un guantino di cotone candido, non aveva destato la mia curiosità e soltanto col senno di poi capii che si trattava di una protesi.
Frequentando una scuola gestita dalle suore, queste si occupavano anche dell’istruzione religiosa e l’acquisizione dei sacramenti era conditio sine qua non per frequentare quell’istituto. Il giorno dopo aver ricevuto la cresima, mezza classe sfoggiava la penna stilografica nuova di zecca e la soddisfazione regnava sovrana, fatta eccezione per Alessandro, me e forse, Persichetti dell’ultimo banco, terzo mancino della classe. C’è da dire che Leonardo da Vinci l’aveva capito subito, infatti, pur usando anche lui la sinistra, differentemente dalla consuetudine, scriveva partendo dal bordo destro del foglio. Noi invece, cosa ne potevamo sapere che l’inchiostro delle stilografiche asciugava molto più lentamente delle comuni biro ed a meno che non avessimo adottato una postura della mano da contorsionista, questa, scorrendo sul foglio con la scritta ancora fresca, si imbrattava tutta producendo l’effetto timbro? Le parole si imprimevano sul lato della mano, e da lì si stampavano nuovamente sul quaderno mentre nuove scritte fresche ripetevano il fenomeno all’infinito. Non eravamo per nulla soddisfatti delle nostre penne stilografiche e di quell’orgia d’inchiostro derivata, da cui si salvava soltanto il bianco guantino di Alessandro. Inoltre, le amabili suore, a conferma dei loro dogmi, non perdevano l’occasione per ricordarci che certe cose accadevano perché ci ostinavamo ad usare la mano del diavolo. Forse neanche loro si erano accorte che il mio amico del cuore aveva una protesi al posto della mano destra! Più bonariamente, suor Clelia del doposcuola, soleva chiamarci, i tre imbrattoni. Nel giro di pochi giorni, Persichetti dell’ultimo banco, disordinato e distratto cronico, perse la sua penna stilografica, per cui, rimanemmo in due, ostinati più che mai ad insistere ad imbrattare d’inchiostro mani e quaderni. Quando la penna di Alessandro si ruppe irrimediabilmente, cominciammo a condividere l’uso della mia, cementando ancora di più la nostra amicizia. Quella stilografica divenne catalizzatrice ludica della nostra fantasia: giocavamo ad imitare gli adulti, fingendo di firmare assegni, contratti e lettere d’amore, oppure inventavamo rari manoscritti ed antiche ricette di pozioni magiche.
Con quella che, per amor di amicizia, era diventata la nostra penna, l’ultimo giorno di scuola decidemmo di strafare, disegnando a due mani, una donnina nuda: un’esplosione di ricci e boccoli circoscriveva un ovale al cui interno, una bocca a cuore, due puntini orizzontali come un dittongo per il naso e due occhi di gatto con ciglia lunghissime completavano il volto. Un esile collo in mezzo a due spalle sormontavano due pompelmi con al centro di ognuno, un acino d’uva per un seno davvero super. Al centro di un vitino di vespa un puntino localizzava l’ombelico e sotto, in mezzo a due generose curve per i fianchi mediterranei, con un generoso apporto d’inchiostro, disegnammo la madre di tutte le forze motrici: il triangolo pubico! (Nel 1970 le foreste pelviche erano particolarmente rigogliose.) Infine, due gambe appena accennate ci tolsero dall’imbarazzo di non saper disegnare i piedi. A causa dell’effetto timbro, il pube villoso si moltiplicò esponenzialmente su tutto il foglio e quell’abbondanza di natura ci fece ridere attirando Suor Maria e la sua ira. Ormai lo scandalo era compiuto e la macchina fustigatrice era partita: fummo separati ed inviati per direttissima, io dalla superiora e lui dalla preside in attesa dell’arrivo dei nostri genitori.
Di Alessandro non ebbi più notizie ad eccezione di una sua cartolina speditami durante quell’estate, tutta imbrattata: è vero, nella confusione dello scandalo, la stilo era finita nella sua cartella!
La stilo
di Francesco Ventriglio di Roma