Era il Novembre del 66 e, nell’ennesimo istituto dove mi avevano rinchiuso, c’erano solo maschietti, brutti, sporchi e anche cattivi a volte, me compreso ovviamente.
Per noi le bambine erano miraggi, le vedevamo solo da lontano, ed era molto emozionante percepire il loro vociare allegro, quell’incedere tranquillo di chi non teme la mano che l’accompagna.
Fu così, con quel pensiero nella mia testolina che un pomeriggio d’inverno appena rientrato a “casa”, decisi di disegnare una “bambina” sul muro.
Lì, nel cortile c’era una bella panca in pietra su cui spesso mi rannicchiavo e nel mio angolino, in silenzio, cominciai e disegnare con un sasso la fantasiosa figura di una bimba. Le feci una faccia tonda, il grembiule, le trecce e due manine che sembravano pinze da idraulico, non era bella, ma non importa, doveva solo farmi compagnia. Con un coccio di mattone, le colorai di rosso i capelli, la bocca e le scarpine. Poi le dipinsi con della polvere il grembiulino, ed infine grattai un po’ l’intonaco per farle due occhietti vispi. Al termine “dell’opera”, l’insieme appariva più che altro il disegno di un malato di mente, e leggermente psicopatico, però mi piaceva così.
Decisi che sul nome avrei riflettuto durante la notte, tanto lei da lì non si sarebbe mossa, ed io nemmeno. Il pensiero mi tormentò nella lunga notte in ascolto del buio altrui.
Il giorno seguente, durante il tragitto verso la scuola, cercai di capire dalle mamme il nome di alcune bimbe, e anche quello di alcune mucche, chiedendomi come mai quest’ultime avessero nomi proprio femminili.
Ricordo che il Bepi urlava per la strada con il bastone alzato:
“Zarina… Nora… Lulù… Serena… dai docà… fi ndà ste gambe…” e poi giù una sfilza irripetibile di improperi.
Era buffo il Bepi e le suore “cappellone” lo sgridavano sempre per la sua colorita forma di “parlare”, ma lui scrollava le spalle, sputava per terra, e con il suo toscano spento tra i denti, si allontanava con le bestie e il cane: lui non aveva paura di loro!
La mattina seguente, mentre il Bepi aveva “parcheggiato” i suoi animali fuori dal bar, mi separai dalla fila di bambini, corsi verso di lui e ansimando gli chiesi:
“Bepi… Bepi, ma Zarina cosa vuol dire?” mi guardò un po’ trucido e dopo aver sputato tabacco mi rispose:
“ma io non lo so, me l’hanno venduta così, e mi hanno detto che era il nome di una regina, boh io non so se è vero però è bello e ce l’ho lasciato e adesso fila che altrimenti le cappellone ti spaccano la schiena con la verga, lo sai!”
Il pomeriggio dopo la scuola, corsi da Lei, molto felice e soddisfatto della compiuta scelta. Le disegnai una coroncina in testa, e sottovoce le sussurrai:
“tu sei Zarina, la regina del muro… da qui a là in fondo… anche del portone.”
Dopo aver incoronato Zarina, feci per andarmene, ma una vocina flebile e dolce, risuonò alle mie spalle:
“ehi tu… dove vai? Nemmeno mi hai detto come ti chiami, non ci si comporta così con una Regina.”
Quella voce, quella risatina roca, mi gelarono le gambe. Lentamente mi girai, attento a che nessuno mi osservasse, mi avvicinai al muro, salii sulla panca e, a tu per tu con Zarina, chiesi:
“ma non sei tu che hai parlato, vero? Lo sai che poi i miei amici mi scherzano se lo vengono a sapere…”
Ancora sconcertato dall’accaduto, sentii una mano che mi strattonò per le bretelle trascinandomi a terra, mentre una voce stridula urlava: “scendi immediatamente da lì, sei ridicolo appiccicato al muro, vieni giù” e con un calcio mi allontanarono da Zarina.
Una notte, non riuscendo a dormire, mi affacciai alla finestra grande del corridoio, cercando nel buio il profilo di Zarina, ma lei non c’era più!
Mi prese il panico, rimasi più di un’ora a rimuginare su questo, perlustrando il muro e il cortile, sino a quando una sberla potente sulla nuca e una nasata sul davanzale non mi riportarono alla realtà e alla mia branda.
Sotto la coperta nera e dura, piansi di rabbia tutti i miei perché senza risposte, non potevo accettare che anche lei mi avesse abbandonato.
Il giorno successivo passai la mattinata a scuola, immerso nei miei pensieri, e nelle domande per le quali non percepivo risposte. Era per me inconcepibile che Zarina non fosse più lì, me l’avevano forse rubata, oppure semplicemente si era allontanata?
Rientrato in istituto, corsi in cortile a perlustrare quella parete così lunga e alta, che sembrava un mondo piatto in verticale. La cercai tra le venature verdi di muschi, e spaccature di muro che sembravano caverne, poteva essere ovunque!
Ero ormai rassegnato alla sua scomparsa quando d’un tratto sentii: “ehi bambino, ciao, che ci fai qui?”
Alzai gli occhi incredulo, e Lei era lì, sulle tegole rosse del portone, seduta tranquillamente con un fiore di carta in mano ad ammirare le montagne.
La osservai senza dire nulla, era così dolce in quel suo atteggiamento, poi presi coraggio e dissi: “Zarina perché sei fuggita dal nostro angolo?”
Lei mi guardò un po’ imbronciata e disse:
“vedi bambino, tu mi hai disegnata dentro il muro, ed io potevo solo vedere voi e le suore, ma tutto ciò mi rendeva molto triste. Le suore vi sgridano, vi picchiano continuamente, voi fuggite a nascondervi, gridate di notte, bevete dalle pozzanghere e dai gabinetti! No, non volevo più vedere questo, e allora sono salita quassù a contemplare le montagne e la gente che passa sopra il ponte per andare ai pascoli o al lavoro. Qui vedo passare bambini felici, allegri, e vorrei che anche voi foste così! Dai vieni su, ti racconto le storie che ascolto dalle finestre delle case, durante la notte!”
“Ma io non posso salire, è troppo alto e se mi vedono le suore mi rinchiudono nella cella piccola!”
Allora Zarina ebbe un’idea, scese dal portone, si mise accanto a me e, osservandomi, mi disegnò sul muro. Tratteggiò i capelli arruffati, gli occhiali neri e grossi, i pantaloni corti, le bretelle rosse, e un paio di scarpe magnifiche.
Poi con voce dolce mi disse: “adesso chiudi gli occhi, metti le mani nelle tue mani di muro, e sarai con me!”
Così feci, e mi sentii leggero, felice. Lei mi prese la mano, mi sorrise ed insieme fummo sul portone. Osservai il cielo, le case, gli alberi, ma soprattutto vidi la gente, viva, ed insieme decidemmo di fuggire per sempre, tra le strade ed i saliscendi di quelle valli.
Ecco, questa è la semplice storia di un bimbo solo e Zarina, essi sono ancora là, vagando di muro in muro, di casa in casa, di lettino in lettino, a raccontare storie a quei bambini che nella notte tremano dentro… senza sapere perché.
Regina di muro
di Raffaello Corti (Bergamo)