Oggi si parte da Watamu e si va a Malindi. La meta è la casa di Giusy Maccari, detta “Mama Giusy” come si usa qui in Africa chiamare le donne di una certa età. Con Daniela facciamo il primo tratto di strada a piedi per raggiungere la fermata del bus, cioè del “matatu” che è il mezzo di trasporto per le tratte più lunghe. È un pulmino minibus, che può contenere circa 15/18 persone, ma il numero dei passeggeri è solo “un optional”. In effetti più ne salgono e più l’autista e il controllore sono contenti perché così l’incasso della giornata aumenta. Ci si stringe… Se uno ha più bagagli se li mette sulle ginocchia o sotto le gambe, sue o del vicino. Che problema c’è!? “Hakuna matata = nessun problema”.
Saliamo sul matatu direzione Malindi che sono circa una quindicina di chilometri e… abbiamo anche la TV che sta trasmettendo un programma di video musicali a tutto volume. Lo schermo è posizionato sulla spalliera dietro la poltrona dell’autista (per fortuna), e proprio davanti alla mia faccia, la qual cosa mi impedisce completamente la visuale sulla strada che stiamo percorrendo. Faccio fatica a vedere anche lateralmente, ma in compenso…ascolto musica. Alla mia sinistra una “mamma-ragazzina” con un bimbo legato addosso a lei con un pareo che ha un berrettino di lana azzurro in testa, così ben coperto che non ne vedo neppure un centimetro. A noi non verrebbe certo in mente di coprire i nostri bimbi piccolissimi con indumenti di lana in piena estate, ma gli africani soffrono molto il freddo, anche con quasi 30 gradi all’ombra. Paga il matatu con 100 scellini (circa 1 euro), e riceve il resto di 50. Rovista nella sua borsa di stoffa e tira il lembo di un altro pareo che ha già un nodo. Lo apre e nasconde all’interno i 50 scellini di resto: il suo portamonete. Sul matatu ci sono altre due donne che, guardandole, ne ho dedotto essere madre e figlia e che indossano vestiti uguali. Dopo un paio di fermate scendono al volo per spostarsi sui sedili davanti, a fianco dell’autista, che in quel preciso momento si erano liberati e che, evidentemente, tenevano d’occhio. Una corpulenta signora sale e si siede dietro di me. Sento le sue ginocchia infliggermi un colpo contro i miei reni…davvero troppo grossa, incastrata sul sedile non certo di prima classe.
Sto osservando persone che salgono e scendono. Il matatu non ha fermate fisse, ma chiunque può scegliere di salire e scendere dove e quando vuole, basta solo fare un cenno con il braccio, ma anche no, perché se tu non hai visto il matatu in arrivo, lui ha visto te che cammini lungo la strada e quindi ti suona un colpo di clacson per avvisarti che, se vuoi, si ferma a raccoglierti…per quanto pieno sia, un posto lo si trova sempre…stringendosi un po’. Il controllore riscuote il pedaggio dai passeggeri e avvisa l’autista battendo un colpo con la mano sul tetto del matatu per avvisare di fermarsi o di ripartire. Se all’interno rimane un posto libero si siede anche lui, contrariamente… “hakuna matata” (non è un problema), lui rimane in piedi, mezzo dentro e mezzo fuori dalla portiera aperta del mezzo.
Lo schermo della TV continua a diffondere video e musica in aumento di decibel e io e Daniela non riusciamo a scambiarci una sola parola.
Una famiglia con tre bambini viene fatta salire e posizionare in fondo al pulmino. Una donna sale davanti a noi e invece di una borsa ha in mano una grossa scatola bucherellata e legata a più mandate con uno spago. Cerco di indovinare che cosa contiene, quando il pigolio che si sente uscire supera quello della musica: ci sono dei pulcini. Non ho visto invece di chi è un secchio giallo che da un po’ sta passando di mano in mano e viene continuamente spostato, ma per fortuna vedo che è vuoto e mi tranquillizzo perché non c’è pericolo che ci rovesci addosso qualcosa, il che potrebbe anche succedere. Vedo che la strada è asfaltata, ma ci sono molti dossi soprattutto quando si passa in prossimità di villaggi e per le continue fermate che comunque vengono fatte giù dall’asfalto con un dislivello non indifferente. Un ragazzo con i capelli “rasta” si siede vicino a me e scende dopo pochi chilometri. Sono le dieci del mattino, fa già molto caldo, ma molti indossano berretti di lana e magari solo una canottiera o una maglietta. Evidentemente solo la testa deve rimanere al calduccio. Dicono che soffrono il freddo!
La distanza tra Watamu e Malindi è, come detto, di circa 15 Km e con il matatu si percorre in 30/40 minuti, a seconda di quante fermate si faranno lungo il percorso. Arriviamo finalmente a Malindi, terza città del Kenya dopo Nairobi, la capitale, e Mombasa. Qui è un vero caos, un pullulare di persone, macchine, matatu, tuk-tuk, bajaji (moto). Eredità degli inglesi è la guida a sinistra che ci suggerisce di stare doppiamente attente negli attraversamenti e spostamenti da un marciapiedi all’altro. Scendiamo dal matatu e saliamo su un tuk-tuk per farci portare al Nakumat, grosso centro commerciale di Malindi, dove ci dobbiamo incontrare con Giusy.
Tra Watamu e Malindi
di Gianna Costa (Verona)