Il vento soffia forte, le strade sono mulinelli di polvere e foglie che si sollevano improvvisi e fanno il girotondo prima di disperdersi.
L’inverno, quest’anno è arrivato tardi e sembra voglia recuperare il tempo perduto.
Le cime degli alberi si piegano, come in un inchino alla nuova stagione.
Osservo dalla finestra un sole distratto che accarezza con malinconia i tetti, prima di arrendersi alla notte.
Alle mie spalle, la televisione accesa: Un rumore di sottofondo che illude le persone di non essere sole.
Mio padre è seduto in poltrona, sulle gambe una coperta a rombi bianchi e rossi, sembra farsi piccolo, quasi che il vento possa raggiungerlo e scuoterlo come fa con gli alberi.
Anche mio padre fa il suo inchino al tempo.
Un albero dal tronco rinsecchito che ha donato alla vita tutti i frutti che aveva.
Mi siedo al suo fianco e sento il peso del silenzio.
Le parole di circostanza escono stanche e le domande non hanno mai la risposta che si vorrebbe sentire.
Studio i suoi occhi grigi e vedo le tracce di un passato che mi appartiene, angoli di vita imprigionati in un pensiero che traspare. Leggo gli interrogativi che tutti si pongono quando si arriva alla fine della strada mentre la sera spegne ad una ad una le stelle, lasciando spazio a una notte senza luna.
Brandelli di Fede appesa ad una preghiera e un dolore da dimenticare.
Oggi è ancora vita e non serve immaginare un futuro lontano, basta esserci adesso e assaporare ogni secondo con avidità e una forza che sfocia nel coraggio.
Mi osservi, con un sorriso gentile, grato che io sia al tuo fianco. Lo facevi anche quando ero bambino e mi osservavi nei miei giochi costruiti con la fantasia.
Le scatole di cartone che tagliavo con la forbice dalle punte arrotondate e incollavo in malo modo, usando interi rotoli di adesivo.
Era la mia città, fatta di case dalle dimensioni sproporzionate, da dedali di strade immaginarie che non portavano da nessuna parte, oppure, bastava volerlo, in ogni angolo del mondo.
Vi era il campanile, che non emetteva alcun suono e posto sopra un altura, costruita con la carta pane, un castello che io trovavo bellissimo.
Ricordi… avevo fatto anche il ponte levatoio usando dello spago, il portone si apriva e si abbassava, ed ero così orgoglioso che tu fossi li a guardarlo, tu che avevi la sapienza nelle mani, quella di chi aggiusta ogni cosa.
Non te l’ ho mai detto, ma mi piaceva quando stavi li ad osservarmi.
Nella mia città popolata da figure di cartapesta, vi erano i soldati che facevano la guardia al forte e anche se qualche volta combattevano e cadevano, si rialzavano tutti e come in un gigantesco abbraccio finivano insieme agli improvvisati nemici a riposare nella cassapanca, perché la cena era pronta e non si poteva tardare, guai a lasciare la stanza in disordine.
Vorrei riportarti ancora li.
Vorrei riaprirla quella cassapanca e tirare nuovamente fuori le case di cartone, con la stagnola alle finestre a simularne i vetri. Colori pastello per dipingere i tetti di rosso o di grigio, per poi disporle in alternanza e sentire nuovamente il tuo sguardo addosso.
Vorrei tornare bambino, darti la mano e portati nella città della fantasia, quella che non esiste, che sembra invisibile, ma ha mura più solide di qualsiasi altra costruzione.
Dove il dolore è un vento gentile e leggero, un posto dove si può camminare scalzi senza ferirsi i piedi.
Il sole non è mai troppo forte e lo puoi spegnere quando lo desideri, così come le stagioni, che possono durare un minuto oppure essere eterne.
Una città dalle strade colorate,un angolo di carnevale, con la gente che danza.
Il tuo volto, sono sicuro, si aprirebbe nuovamente in un sorriso gioioso e la luce spazzerebbe via quelle ombre che ora hai negli occhi.
Forse persino io troverei le parole da dirti, quelle che servono a stare bene, perché ora, per quanto mi frughi nelle tasche non riesco a mettere insieme nemmeno una frase che non sia scontata.
Qualcosa che possa far dimenticare, anche per un secondo solo, la malattia e il suo incedere silenzioso.
Non esisteva il tempo nella mia città, anche il campanile che avevo costruito, se ti ricordi, aveva le lancette disegnate, che non si muovevano mai.
Sai Papà, ancora adesso, quando la vita mi urla addosso e mi fa paura, mi rifugio tra le mie mura di cartone.
Piene di amici pronti a confortarti e a guarire ogni genere di ferita. La mia città è ancora li, dentro di me, custode di tutti gli attimi vissuti, quelli preziosi, che si nutrono di emozioni.
Non mi serve altro.
Vivo così, in equilibrio, tra fili sottili, tesi tra nuvole che a volte si ingarbugliano tra loro, lasciandomi sospeso, tra terra e cielo, come un precario aquilone.
Il vento sembra essersi calmato, non sento più la sua voce.
La sera sta avvolgendo questa parte di mondo, con il suo mantello di ombre e di stelle.
Ti sei addormentato, come se ti avessi raccontato una storia.
Resto qualche minuto a guardarti e ti sistemo la coperta. Sei un padre tornato bambino.
Anche questo istante ha qualcosa di magico, nonostante mi senta trafiggere il cuore.
Esco dalla stanza senza far rumore e spengo la luce.
Ti porto con me.
Nel mio posto per sempre.