Sono nata a metà degli anni ’70 ed oggi inizio a sentire i primi acciacchi.
Ne ho compiuti quarantuno il mese scorso, volati via come tutte le cose belle. Al mio fianco Luisa, quella che è stata per me qualcosa più di una sorella.
Per lei io ero la sua psicologa silenziosa, pronta ad accogliere ogni giorno i suoi dubbi, le sue paure, i tanti momenti di gioia, ma anche alcuni attimi terribili che non dimenticherò mai.
Mai.
C’era affetto tra di noi, anche se io, in realtà, l’ho sempre amata.
La scrittura era la sua vita: bastava un riflesso nel cielo o una nuvola sul mare per creare, per darle ispirazione.
E spesso, durante una delle nostre solite corse pomeridiane, si fermava: prendeva un pezzo di carta qualsiasi ed iniziava a scrivere, fregandosene di tutte quelle gocce d’inchiostro cadute dalla sua stilografica, oggi ormai smarrite sulla mia pelle scura.
Solitamente, nei mesi più caldi, scarrozzavamo insieme fino al Monte Bisbiglio, dal quale si poteva ammirare il piccolo paesino di Pratoverde in tutta la sua bellezza.
Eravamo solo io e lei.
Una volta ho anche potuto raccogliere le sue lacrime cadute sulla mia pelle ancora giovane: erano salate, salatissime.
E contrapposte alla sua dolcezza, me la facevano amare ancora di più.
Da lassù potevamo vedere il giallo di quei girasoli, che al tramonto, lentamente si intristivano, e riuscivamo ad apprezzare maggiormente il verde sfumato degli Altopiani della Rocciaviva.
Nelle giornate più terse e senza nuvole, aspettavamo il tramonto con lo sguardo rivolto al nostro amato, ma lontano mare, per poter godere di quegli attimi, di quei momenti felici: i lunghi minuti in cui il cielo e il mare donavano all’orizzonte colori irregolari, inimmaginabili ed indescrivibili.
Era poesia.
Lentamente, mentre scendevamo a valle, mare e cielo diventavano quasi indistinguibili.
Cielo e mare diventavano notte, e solo le stelle ne delimitavano il confine.
Rimaneva soltanto la luna a illuminare il volto di Luisa, che a tarda sera era ancora più bella.
Finita l’estate, arrivava la mia stagione preferita: l’autunno.
Gli alberi secolari, posti lungo la Via Vecchia, iniziavano a perdere le foglie, cadute inermi su un asfalto reso pericoloso dalle piogge tipiche del periodo, costringendo me e Luisa alla prudenza.
Ma era bello.
Era bello correre su quel tappeto giallo, su quelle foglie senza più clorofilla, che a lungo andare si diradavano, cadendo nei fossi adiacenti alla strada.
L’inverno abbracciava le nostre anime infreddolite con i suoi bianchi fiocchi di neve, le sue folate di vento e la tanta pioggia a cui siamo sempre state abituate fin dall’inizio.
Eravamo insieme nelle giornate felici ed anche in quelle in cui ho temuto per la nostra incolumità, quando la mia amata sorellina non stava bene ed era letteralmente a pezzi.
In effetti, lo riconosco: qualche volta ho avuto paura.
Come quel terribile 7 gennaio di tanti anni fa: il viso di Luisa scavato dalle lacrime, determinato ad arrivare sulla vetta del Bisbiglio, sfidando una delle più belle e instancabili nevicate che io abbia mai visto.
La strada, che si inerpicava in mezzo alla Foresta dei Mercanti, era già pericolosa d’estate con i suoi lunghi tornanti e le curve senza protezione a valle: figuriamoci quella volta!
Duemila ettari di verde completamente riverniciati di bianco, con la visibilità ridotta al lumicino e con una pazza che voleva farla finita, lanciando tutte le sue paure giù per lo strapiombo:
quale ingrediente mancava per poter morire?
Per lo spavento, iniziai a tossire violentemente e, finalmente, si fermò.
Si lasciò andare ad un pianto liberatorio che sancì la fine delle sue intenzioni belliche e suicide, e tornammo a casa, sane e salve.
L’inverno era anche mare.
Ancora mare.
Dopo lavoro, ci avventuravamo spesso in lunghe gite per raggiungere le coste più vicine.
Erano circa quaranta chilometri tra andata e ritorno, che senza autostrada, si facevano sentire, ma Luisa al richiamo delle onde non ha mai detto di no.
Silenziosamente, la attendevo sul ciglio della strada e la vedevo attraversare la spiaggia, per poi accomodarsi su uno scoglio arrotondato, che sembrava fatto apposta per guardare il cielo.
Il freddo pungente rendeva l’atmosfera ancora più affascinante: peccato che io non abbia mai visto come fossero i suoi occhi quando si perdevano nella luce delle stelle, quando magari incontravano una cometa e la seguivano spegnersi nel buio della notte.
Al rientro a casa, la sentivo a volte piangere, a volte singhiozzare, a volte ridere.
L’ho amata per tutto quello che mi ha dato.
Per tutto quello che lei non si immagina neppure.
Io e Luisa siamo state insieme per poco più di quarant’anni: l’ho vista lentamente invecchiare, ingrassare e poi dimagrire ancora.
L’ho vista cambiare colore dei capelli da bionda a rossa ed infine mora, ma soprattutto l’ho vista combattere.
E la ringrazio.
La ringrazio perché nel 1976 ha scelto me e non un’altra più bella, che magari correva di più.
Ha scelto me che non sono niente di speciale.
“Auto d’epoca”
Questo il cartello esposto, quello che mi definisce con tre parole.
E mentre mi riposo in questa vetrina, ripenso a quel riflessi nel cielo e a quelle nuvole sul mare.
E risento quelle gocce d’inchiostro ormai invisibili sulla mia pelle nera, ma incancellabili dal mio cuore.
Ma soprattutto sogno Luisa.
Sogno che un giorno possa essere ancora lei a tornare a prendermi.
Ancora una volta.